Tags: braccagni, grosseto, maremma, tradizioni, vino
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L’alluvione del 1966 a Grosseto: il mio racconto
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GROSSETO – Una Nuova Grosseto arrembante, veloce e dotata di spirito agonistico, ha la meglio per 0-3 sullo Scarlino. Il successo è figlio di una condotta lineare dei ragazzi di Rosini validi nel gestire i vari periodi della sfida e gelidi nel colpire. Quelli di Telesio hanno svolto il loro compito con abnegazione cercando sempre di cucire gioco e reparti ma sono mancati nei metri cruciali, quelli che incanalano verso la porta avversaria. I primi 20′ di gara sono privi di occasioni, tuttavia si intravede la comune predisposizione a costruire trame di livello. Quindi al 23′ il gol di Rossi… [Leggi tutto..]
“SE CRISTO DOMANI BUSSERA’ ALLA VOSTRA PORTS, LO RICONOSCERETE?” ( RAOUL FOLLEROU) 15 MAGGIO 2022 V DOMENICA DI PASQUA / C Giovanni,13,31-34-35 Quando Giuda fu uscito dal cenacolo Gesù disse: “ Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato con lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio […]
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A quei tempi
L’uva e il vino in Maremma (a quei tempi)
Il mio primo contatto con l’uva e col vino l’ho avuto dallo zio Erpidio in Vallerotana, la bella e bassa semiconca affacciata verso Grosseto sulla strada dello Sbirro, quella che dall’Aurelia del Bottegone porta a Roselle.
Lui era uno dei tanti mezzadri della fattoria degli Acquisti, proprietà dei conti Guicciardini Corsi Salviati. La vigna però lui ce l’aveva lungo l’Aurelia, prima del Bottegone, dove c’era la Casa Cantoniera dell’ANAS: una specie di collinetta, saranno una trentina di metri di dislivello, che scendeva dolce verso la ferrovia con una stupenda esposizione a sud ovest.
Non che a quei tempi ci si guardasse più di tanto, ma così era quella. Come per altre vigne era a coltura promiscua, nel senso che tra un filare e l’altro c’era un po’ di terreno coltivato e lungo i filari, a intervalli quasi regolari, c’erano piante di olivo, qualche frutto e qualche pianta di giunco in testata, giusto per rimediare il materiale per le legature.
Quando arrivava il momento io partivo con la mi’ mamma e ci si ritrovava tutti a casa dello zio dove erano convenute le altre zie, gli altri nipoti e altro parentado da tutta la Maremma. La prima cosa era la distribuzione delle forbici: a quelli più bravi toccavano le forbici da potino, quelle grosse con la molla a baco, poi finite queste s’attaccava a distribuire le forbici normali da casa. A me toccavano sempre queste, ma il mi’ zio Erpidio che mi voleva un bene dell’anima, ogni tanto me ne allungava un paio nuove di quelle vere, che non si sapeva da dove scappassero fuori.
S’andava nella vigna con il carro tirato dai buoi – Vespina e Lambretta si chiamavano – e sopra il carro c’era tutta la batteria dei bigonci per raccogliere l’uva. Quello era il mio posto preferito quando cominciava ad esserci un po’ d’uva. Allora cominciavo a spingere col batacchio (bastone in legno usato per schiacciare l’uva, n.d.r) tutto intagliato e poco dopo cominciavo a vedere quel mosto rosso scuro e con la schiuma e a sentire quell’odore che resta più buono dell’uva, anche quando questa diventa il vino migliore del mondo.
Era anche il posto privilegiato per scegliere qualche bella ciocca d’uva e prenderla a morsi come si fa con una fetta di cocomero, senza stare a togliere i semi. La mamma non voleva perché aveva paura ci fosse rimasta qualche vespa che poteva pizzicarmi in bocca.
Nella grande cantina di fattoria mi limitavo ad ubriacarmi con i profumi di mosto in fermentazione e di legno buono delle grandi botti. Potevo bere dal cinquino con la camicia (patina che si creava sul bicchiere dopo molto uso, n.d.r) un po’ di mosto dolce o anche un leggermente fermentato, quando cominciava a frizzare un pochinino. Poi dopo stop, l’unica cosa che mi permettevano di bere a quell’età era la pimpa, cioè l’acqua che veniva fatta passare sulle vinacce già strette nel torchio. Non so se arrivava a qualche grado, ma ne dubito.
Era di un colore sciapo e un sapore tra l’asprigno e il dolcetto, mentre nella bottiglia che si portava in tavola sembrava la torba adatta per andare a mazzacchera per l’anguille (la pesca a mazzacchera si effettuava durante le piene del fiume, con l’acqua torbida, si usava un ombrello rovesciato per tenerci le anguille catturate n.d.r.)
Quando diventai più grande e in condizioni di bere un po’ di vino quello più buono l’assaggiavo sempre dal solito zio Erpidio. Specie il rosso nuovo, con quel colore incredibilmente bello che in natura non si ripete quasi mai.
Ma quello più buono di tutti lo assaggiai in fattoria ed era tutto un altro vino. Non sembrava nemmeno parente di quello che si beveva da noi. Veniva dalle fattorie di Gargonza e di Monte San Savino. Già il nome di quest’ultima, che mi ricordava l’olio e il vino, doveva esse per forza un posto per fare roba buona.
Ma anche dallo zio il vino era buono…. fino a primavera inoltrata, poi cominciava a cambiare e bene che andasse cominciava a inasprirsi per virare prima o poi in aceto.
A proposito: mi ricordo un cugino della mamma, lo zio Fausto, che stava in un podere al Bottegone. Si volevano bene con la mia famiglia e quando veniva a Braccagni ci portava sempre un bottiglione da un litro e mezzo di vino rosso. Si vedeva che ce lo dava con orgoglio e diceva che l’aveva fatto lui con le sue mani. Aveva anche un bel colore. Ma come lo mettevi nel bicchiere e poi in bocca, erano dolori. Il suo vino era già asprigno a novembre, a gennaio c’aveva lo spunto, da marzo in poi ci si condiva direttamente l’insalata. E loro lo bevevano tutti i giorni!
Per dire che quando uno ha fatto la bocca ad una cosa: gli cambia in cantina il vino che sta bevendo tutti i giorni e difficilmente se ne accorge. Succede anche oggi.
Fine 1° parte
Seguirà……………
La vita in Maremma (a quei tempi)
2° parte
Sono nato nel 1944, il giorno di Pasqua e non mi chiamo Pasquale.
Ho trascorso i miei primi anni di vita nella fattoria degli Acquisti immersa nella Maremma più vera e profonda, proprio ai margini della palude, che noi però s’è sempre chiamato padule, e non so perchè.
Ho fatto in tempo a vedere gli ultimi turni dell’idrovora che raccoglieva le acque dalla Barbaruta, ultimo lembo da bonificare, per rimetterla qualche metro più in alto nel canale che poi portava le acque di bonifica verso il mare.
Nonno Cecco prima e babbo Giorgio poi sono stati i capiofficina in quella grande azienda di circa 4.000 ettari. Per questo conoscevo un po’ tutta la vita di fattoria e della campagna intorno. Babbo sovrintendeva ad una bella squadretta di trattoristi, più altri uomini che erano fissi in officina e negli altri posti dove c’erano macchinari come al frantoio, nella tabaccaia, alla pompa dell’idrovora e così via.
C’erano diversi mezzadri e per il resto l’azienda era a conduzione diretta. Ho fatto in tempo a vedere le ultime trebbiature con la macchina a vapore piazzata dal nonno, che aveva il patentino d’epoca rilasciato negli anni ‘10 come Conduttore di Macchine a Vapore, che allora valeva quanto avere oggi un brevetto da pilota di elicottero.
Poi venne l’epoca del leggendario Landini, un trattore bello come forse non ne sono mai stati fatti, né prima né dopo.
Le trebbiature
Seguivo le trebbiature da privilegiato perchè potevo mangiare nella stanza dei macchinisti. Questi mangiavano per primi, generalmente anche meglio e di più rispetto a tutti gli altri lavoratori. A me interessavano soprattutto la grossa cipolla (i bargigli) e le ciabatte (le zampe n.d.r.) del papero lesso e stando li con loro non c’erano problemi ad averle
Per me erano i giorni più belli dell’anno perchè la trebbiatura mi pareva una grande festa. I contadini si aiutavano a vicenda con il sistema del lavoro di scambio e quindi ad ogni trebbiatura c’erano tutti i “colleghi” dell’interessato. Così per due, tre o anche cinque giorni aveva questa brancata di gente in casa a lavorare, ma anche a mangiare. Poi si spostavano tutti nell’altro podere e così via fino all’ultima aia.
Il mangiare di quei tempi
Il pane lo facevano in casa, il venerdì, mia nonna e mia mamma nel forno che s’aveva sotto le scale di casa. Durava una settimana e stava dentro alla madia assieme al lievito madre per la settimana dopo. La madia era il posto dove ho sentito uno dei profumi più buoni di tutta la mia vita.
La carne era di pollo o di faraona o di coniglio o di piccione, cioè quello che s’allevava nel proprio pollaio.
Poi qualche volta all’anno arrivava l’agnello dal pastore per qualche lavoretto che babbo poteva avergli fatto. La carne di macello si vedeva spesso, ma solo col binocolo, cioè quasi mai. Il sugo della domenica era fatto con le interiora del pollo, fegatino, cuore, cipolla, e budellini compresi, che io imparai presto a pulire con le forbici e poi con l’acqua e con l’aceto. Nel sugo ci stava bene anche il fegato e la testa del coniglio, quest’ultima era però difficile da mangiare.
Il macinato per il sugo o altra carne proveniente dal macello era veramente rara in casa mia.
L’unica carne vera e alternativa era quella di maiale, ma quella la lavoravano solo i contadini, perché noi in fattoria non si potevano allevare.
Un’altra alternativa – pur se abbastanza rara – poteva esse la carne di cavallo se capitava che ne dovessero abbattere uno perché s’era fatto male. Ma se capitava allora babbo, che era fra le altre mille cose anche mezzo macellaio, portava a casa delle zangole (recipienti di legno piuttosto grandi, n.d.r.) stracolme di questa carne in pezzi enormi e sanguinolenti. Forse è per questo che mamma non poteva sentire più nemmeno l’odore di quella carne. Io la mangiavo come i miei fratelli e come il resto della famiglia perché, dolce o non dolce, la carne si vedeva normalmente solo il giovedì e la domenica, quindi se c’era un extra figurati te se si lasciava! Poi dicevano che la carne di cavallo faceva bene. A che cosa non me lo ricordo.
Il pesce lo portava in fattoria il Morino, un pescivendolo che arrivava da Grosseto con la bicicletta e due cassette di legno con le sarde, l’acciughe e un po’ di frittura mista. La catena del freddo era assicurata da due balle di juta– quelle del grano – avvolte attorno alla cassette del pesce e abbondantemente bagnate prima e durante i 12 chilometri che ci sono tra Grosseto e gli Acquisti.
Il pesce veramente fresco era quello che portava a casa il babbo ed era tutto pesce di fosso come tinche, lucci o anguille. La tinca in particolare mi piaceva perchè meno liscosa del luccio, più saporita, più colorata, e poi se arrivava viva a casa sopravviveva abbastanza in un secchio d’acqua, giusto per vederla muovere e tocchicchialla un po’, bella sguillante com’era.
L’anguille venivano prese a mazzacchera, con un ombrello d’incerato verde rovesciato vicino al fosso di pesca, una canna dove come finale ci venivano messi dei lombrichi e poi dei dadi da bulloni come pesi.
Poi c’erano le granocchie. Quelle le sentivi la notte nella stagione buona che facevano dei concerti che non ti dico. Venivano catturate in un modo che non posso nemmeno raccontare perchè senno è capace che qualcuno mi venga ad arrestare anche ora. Si facevano in umido, ma la su morte erano fritte.
Per questo fatto delle granocchie, quando a sette anni sono arrivato con i nonni e la zia in paese a Braccagni, ci chiamavano granocchiai, forse con l’idea di prenderci in giro. Sbagliavano, tanto è vero che essendo io uno dei pochi rimasti in paese senza soprannome, me le so affibbiato da solo in vecchiaia non tanto tempo fa, giusto per non morire senza un soprannome, che in Maremma è quasi un disonore.
E quindi adesso che gioco a scrive senza calamaio
pe la gente del posto son diventato il Granocchiaio.